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5 domande al dottor Massimo Lazzeri

Urologo dell’Istituto Clinico Humanitas IRCCS di Rozzano (MI) e ricercatore

Dottor Lazzeri, perché ha scelto di fare il medico?

Durante la mia infanzia credo che ho condiviso i sogni di molti bambini che in quel periodo della loro vita si immaginano di diventare vigile del fuoco, pilota, poliziotto o calciatore. Io ho un’immagine chiara della mia infanzia, ricordo che volevo fare il medico e la mia idea di medico era quella di 50 anni fa, un uomo con il camice bianco e lo stetoscopio che passa in corsia.

Durante la scuola media superiore, quando leggevo ed immaginavo i “Cipressi di Bolgheri”, mi proiettavo nelle storiche corsie di ospedale dove i letti occupavano i due lati di lunghe camerate e io stavo fra loro. Questa è l’immagine che mi ha guidato nell’intraprendere gli studi di medicina.

E dalla corsia al laboratorio?

La vita cambia in base agli stimoli che riceviamo. Quando ho cominciato a pensare che più che offrire certezze ai pazienti l’incontro con loro mi faceva nascere tante domande, ho intrapreso anche la strada della ricerca. Si è trattato di un’evoluzione, una direzione quasi necessaria: senza una domanda, senza una curiosità, senza un perché, senza l’entusiasmo di cercare di guardare oltre mi sentivo incompleto.

Io non saprei stare senza i miei pazienti, senza le persone che curo, ma non saprei stare senza le domande a cui, con la ricerca, cerco di dare delle risposte.

Cosa vuol dire per lei fare ricerca in Humanitas?

Io sono stato fortunato a entrare in Humanitas: questo non vuol dire che se fossi capitato in un’altra istituzione sarei stato meno fortunato.
Intendo dire che sono stato fortunato perché Humanitas è un ambiente estremamente vivace, perché mette vicino, in termini fisici intendo, la corsia con il laboratorio.

Cosa significa questo? Che se vado a prendere il caffè al bar incontro il genetista oppure incontro l’immunologo e, mentre sorseggiamo, il caffè, ci poniamo domande e ci scambiamo spunti, idee.

Ognuno prosegue la riflessione e, incontrandosi di nuovo il giorno dopo, magari davanti a un cappuccino, che dura più del caffè, o in mensa, con del tempo ancora maggiore, lo scambio di idee continua e le soluzioni vengono trasferite e ricercate nei laboratori e nei reparti dell’ospedale in modo naturale.

In Humanitas coniughiamo tutte le esigenze del paziente con tutte le disponibilità dei ricercatori: io lavoro a fianco di ricercatori magnifici di altissimo livello, famosi non solo in Italia ma anche a livello internazionale, e questa è una grande fortuna.

Perché sostenere la ricerca è importante a suo avviso?

La risposta ce la dà un libro che si intitola “Il gene egoista” (saggio scientifico del biologo inglese Richard Dawkins pubblicato nel 1976 NDR).

Nel volume l’autore parla del grande tema dell’eredità, cosa lasciare di noi al futuro. Quando procreiamo, unendo i due patrimoni genetici, facciamo un atto di donazione, e così miglioriamo quello che siamo attraverso i nostri figli. La donazione alla ricerca è anche questo, a mio avviso: un gesto concreto che una persona può fare per lasciare un granello di eredità di se stesso al futuro.

Non dobbiamo pensare di farci ricordare per il nostro nome e cognome, perché questo è illusorio, ma possiamo farlo attraverso il sostegno della ricerca, che è il modo più generoso per garantirci un’eredità infinita: sappiamo che quel contributo probabilmente darà a chi verrà dopo di noi un mondo migliore. Se la catena non sarà interrotta probabilmente saremo tutti migliori.