Immunità, vaccini e Ricerca: le lezioni del passato per guardare al futuro post pandemia
Riportiamo di seguito una riflessione del prof. Alberto Mantovani, Direttore Scientifico di Humanitas e Presidente di Fondazione Humanitas per la Ricerca, nata in occasione del suo intervento all’iniziativa culturale “La Milanesiana” che ha avuto luogo a Milano il 30 giugno 2021, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Il professor Mantovani, al quale è stato conferito il Premio Futuro – Villa Bogdano 1880 / La Milanesiana in chiusura dell’evento, ha ripercorso alcune pandemie del passato, anche attraverso gli occhi di scrittori celebri che le hanno raccontate.
COVID19 è stata, per me in particolare, un’occasione di rivisitare le mie radici culturali in un percorso che, in parte, ho condotto con Claudio Longhi, direttore del Piccolo Teatro di Milano. In questo percorso ho incontrato, o ritrovato, Tucidide, Socrate, Eraclito, Lucano, Voltaire, Camus e Manzoni. Alcuni di loro ci accompagneranno questa sera in una traiettoria che incrocia le loro storie con quella dell’Immunologia e di COVID-19.
Tucidide, nel libro II della Guerra del Peloponneso, racconta che chi guarisce di peste non se ne riammala, anche se esposto, o – e questo è straordinariamente importante oggi – ne contrae solo una forma attenuata. Si tratta, credo, della prima descrizione della memoria immunologica, il fondamento dei vaccini. Proteggerci dall’infezione o dalle forme gravi della malattia è quello che fanno i vaccini contro COVID-19. E proteggere dall’ospedalizzazione e dalla morte è straordinariamente importante sia per il singolo sia per l’intera società, perché mette in sicurezza il Servizio Sanitario Nazionale, consente di fare screening e curare il cancro, prevenire e curare le malattie cardiovascolari, effettuare interventi chirurgici e tanto altro ancora. Proteggere dalla malattia grave, insomma, ci mette tutti in sicurezza.
La memoria è, insieme al riconoscimento e alla comunicazione, una parola chiave del sistema immunitario, una macchina straordinariamente complessa. Noi immunologi utilizziamo spesso la metafora dell’orchestra per far capire quanto il nostro sistema di difesa sia fondamentale per l’equilibrio all’interno del nostro organismo e con il mondo esterno. Del nostro sistema immunitario continuiamo a non conoscere tutti gli orchestrali, gli strumenti e persino il senso di alcune partiture. Del nostro non conoscere a fondo le partiture immunologiche ci fa da testimone Lucano: nel Bellum civile (o Pharsalia, libro IX) ci parla della resistenza ai veleni dei serpenti. Solo recentemente si è scoperto che meccanismi immunologici alla base dell’allergia nelle sue forme più lievi (il raffreddore da fieno) o più gravi (l’asma) in realtà hanno un ruolo fondamentale nella difesa nei confronti dei veleni. È, questo, solo un esempio di quanto poco sappiamo di alcune partiture della nostra orchestra immunologica.
Ma quello con cui abbiamo avuto a che fare da inizio 2020 non è uno dei serpenti della Pharsalia di Lucano: è un virus nuovo, SARS-CoV-2. Alla fine di febbraio di un anno fa, di fronte ad un nemico incombente e sconosciuto, sono tornato alle radici della nostra cultura greco-romana, al “So di non sapere” di Socrate: un detto che non allude all’impossibilità di sapere (il “Carneade, chi era costui?” di Don Abbondio nei Promessi Sposi di Manzoni, grande intellettuale europeo), bensì alla sfida di fare ricerca innovativa su un nemico ignoto. In questo anno e mezzo abbiamo imparato molto su COVID-19. Abbiamo imparato ad esempio che la genetica dell’ospite e, in particolare geni che hanno a che vedere con l’immunità chiamata innata, cari al mio cuore, sono importanti nel determinare la gravità della malattia. In questo momento il nostro gruppo è parte di uno sforzo globale di condivisione per disegnare l’architettura genetica della suscettibilità a SARS-CoV-2 in uno spirito di condivisione al servizio della salute. Ancora, abbiamo imparato che in alcuni il virus induce autoimmunità che aggrava la malattia: gioca insomma con le nostre stesse difese immunitarie, sovvertendole. Quando sfugge alle difese dà luogo a una risposta infiammatoria fuori controllo: ma abbiamo fatto progressi nell’identificare nuovi biomarcatori per monitorare i pazienti. In attesa di farmaci antivirali efficaci come contro HIV, abbiamo imparato a non usare tanti farmaci rivelatisi inutili (come l’aspirina), e a utilizzare nella giusta finestra temporale, durante l’evolversi della malattia, farmaci come i cortisonici nei pazienti con insufficienza respiratoria (e non prima). In questo cammino abbiamo incontrato il Dr. Roux de “La Peste” di Albert Camus: non è chiaro – e non lo sarà per tutta la durata dell’epidemia e del libro – se il siero che utilizza per controllare la peste funzioni davvero. In COVID-19 la terapia con plasma iperimmune dei guariti, che va alle radici della ricerca in Immunologia, non ha funzionato. La versione moderna del siero del Dr. Roux, o del plasma iperimmune, sono gli anticorpi monoclonali: è notizia di questi giorni che, per la prima volta all’interno della sperimentazione “Recovery” nel Regno Unito, un anticorpo monoclonale ha ridotto la mortalità, di poco ma significativamente, quando somministrato nella fase avanzata di malattia. Il sogno del Dr Roux, forse, si avvera.
Voltarie nelle Lettres Philosophiques ci ha parlato di vaccini e di no-vax. I vaccini sono la nostra speranza di uscire dalla pandemia. Una collega, Ozlem Türeci, che insieme al marito Uğur Sahin e ad altri ha sviluppato in BioNtech, a cavallo fra ricerca pubblica e imprenditorialità, il vaccino a mRNA contro Covid, celebrando il giorno dell’Immunologia il 29 aprile ha parlato di “sviluppare un vaccino alla velocità della luce”. Un miracolo della ricerca scientifica, avvenuto in meno di un anno, ma alle cui spalle ci sono venti anni di ricerca in campi diversi: dalle piccole vescicole trasportatrici, alla struttura dei mRNA, all’immunologia dei tumori.
Se Socrate ci ha ricordato che il “sapere di non sapere” costituisce la premessa per affrontare con umiltà la sfida della ricerca scientifica, Eraclito con “La natura ama nascondersi” ci ricorda quante siano, ancora, le domande aperte. Ricordiamone alcune. Non abbiamo definito quello che in gergo viene chiamato “correlato di protezione”, ossia un livello standard di anticorpi che assicuri protezione contro la malattia. Non sappiamo quanto duri lo stato di immunità conferito dalla malattia o dai vaccini, e non conosciamo il sistema immunitario così bene da poter fare previsioni. Sappiamo però che i vaccini sono meglio della malattia nel conferire l’immunità, e che la malattia dà una protezione modesta nelle persone al di sopra dei 65 anni. Abbiamo imparato, anche grazie alla nostra ricerca, che per chi ha avuto la malattia basta una sola dose di vaccino, con un risparmio stimato di 120 milioni di dosi su scala globale. Non sappiamo ancora con certezza quanto funzionino i vaccini nelle 400.000 persone nel nostro Paese definite “estremamente fragili”: sono i pazienti con cancro trattati con chemioterapia, i malati oncoematologici, i pazienti reumatologici curati con immunosoppressori, le persone affette da malattie neurodegenerative, i dializzati, eccetera. Insieme a diversi istituti del nostro Paese, dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano all’Istituto Oncologico di Bari, stiamo approfondendo le ricerche per proteggere al meglio i nostri pazienti. Se queste sono alcune sfide di conoscenza, non è meno importante quella di condivisione. Possiamo arginare la pandemia solo condividendo i vaccini con i paesi a basso reddito. E l’ultimo miglio lo facciamo insieme a organizzazioni come CUAMM Medici con L’Africa, che trasforma i vaccini in vaccinazione per l’ultimo operatore sanitario nell’ultimo villaggio.
Infine, una riflessione indotta da Alessandro Manzoni e la Colonna Infame, nelle sue due versioni. Una riflessione stimolata da Paola Italia e Giulia Raboni del Piccolo Teatro che offrono una rilettura della prima versione dei Promessi Sposi (Gli Sposi Promessi). Mi sono confrontato con la Colonna Infame nel Cortile dell’Elefante del Castello Sforzesco, dove si trova la lapide agghiacciante che il Senato di Milano aveva posto in quella che ora è via Gian Giacomo Mora. Grazie al dialogo con Paola Italia e Giulia Raboni ho colto un terreno e, forse, un sentire comune tra la ricerca scientifica e l’opera di Manzoni: il dovere della fedeltà alla storia e ai dati come responsabilità sociale nei confronti della comunità. Responsabilità sociale, insieme a rispetto dei dati e rispetto delle competenze è una delle mie tre “R” nel rapporto con la Società civile. Se non capisco male, rispetto alla vicenda della Colonna Infame Manzoni sente il bisogno di ricostruire con fedeltà e spirito critico i dati e il lavoro degli storici che lo hanno preceduto, in quanto insegnamento per la Società, per il presente e per il futuro. Così, chi fa ricerca biomedica ha il dovere di chiedersi quale sia l’impatto sociale del proprio lavoro e di come lo si comunica. Dire che basta una dose di un vaccino, che la malattia è sufficiente a dare immunità, che i sieri iperimmuni funzionano… sono solo esempi di un mancato rispetto dei dati capace, potenzialmente, di indurre a comportamenti pericolosi. La Colonna Infame di Manzoni è quindi un monito per chi fa ricerca biomedica e comunica sulla pandemia. Vorrei concludere accompagnandomi, nel mio cammino, ad un pittore, Lucio Fontana. I tagli nella sua tela, di cui ci sono versioni diverse e che amo, con COVID-19 hanno acquisito per me un significato nuovo. Li leggo come una sfida: attraversare il non sapere, andare al di là dell’ignoto. Al servizio della Ricerca scientifica e della salute come bene comune condiviso.