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Ritratti: 5 domande al dottor Sergio Marchini

Ricercatore del gruppo di Farmacologia del Cancro e responsabile della facility di Genomica di Humanitas

Dottor Marchini, cosa significa essere ricercatore?

In passato, ho pensato molte volte a questa domanda, soprattutto quando erano le mie figlie a farmela. Oggi, come allora, mi trovo sempre nella difficoltà di trovare un singolo termine che definisca in modo preciso cosa vuol dire essere un ricercatore in campo biomedico. Mi piace pensare che un ricercatore sia prima di tutto un uomo o una donna che ha la fortuna di fare una professione che gli piace, che lo coinvolge e che coinvolge la sua vita a 360°. Il ricercatore, per come lo intendo io, è prima di tutto una persona che si pone delle domande e che cerca di dare loro risposta con passione, curiosità e umiltà. Curiosità, passione e umiltà sono per me i tre tratti salienti che devono contraddistinguere chiunque metta il proprio occhio davanti a un microscopio e inizi il meraviglioso cammino della conoscenza.

Di quale ricerca in particolare si sta occupando?

Da anni la mia principale attività di ricerca è finalizzata a identificare le caratteristiche molecolari in grado di influenzare la prognosi delle pazienti affette da tumore epiteliale maligno dell’ovaio. Recentemente abbiamo conseguito un importante risultato, pubblicato su una prestigiosa rivista scientifica internazionale. Dico “abbiamo” perché il ricercatore non è un camminatore solitario, ma un membro di un team multidisciplinare in cui diverse esperienze professionali collaborano assieme per uno stesso obiettivo. Un ricercatore che vuole essere in grado di ottenere risultati importanti deve saper coordinare e interpretare queste diverse esperienze come un pittore sa armonizzare i diversi colori su una tela. Da soli non si va da nessuna parte e non si ottengono risultati in tempi utili.

Di cosa parla questo studio?

Questo studio ha dimostrato per la prima volta che dietro la rigida classificazione patologica che facciamo dei tumori ovarici, possiamo identificare tre sottoclassi molecolari caratterizzate da diversi tipi di alterazioni strutturali nel DNA. Queste classi predicono alla diagnosi la diversa sopravvivenza delle pazienti. (NDR – link).

Mi piace ricordare come questo studio sia solo l’ultimo passo di un cammino di ricerca iniziato oltre 20 anni fa da una domanda clinica che pose un famoso chirurgo italiano, un pioniere della ginecologia oncologica e per tutti noi un maestro (non solo di medicina ma anche di vita), il compianto professor Costantino Mangioni. Il prof. Mangioni voleva capire perché pazienti con la stessa diagnosi, ovvero quella di tumore all’ovaio al primo stadio, pur se trattate allo stesso modo avessero decorsi clinici così diversi: alcune guarivano in modo definitivo, altre sviluppavano nel tempo recidive non più curabili. E se fosse stato possibile distinguere tra queste diverse forme di cancro all’ovaio già in quella fase precoce di diagnosi, quella del primo stadio?
In particolar modo, le pazienti con malattia allo Stadio I (il primo stadio di progressione della malattia ) avevano una prognosi positiva, mentre circa il 20% dei casi, in modo inspiegabile, sviluppava nel tempo recidive non più curabili. Rispondere a questa domanda voleva dire affrontare due grossi problemi per quel tempo. Primo, essendo il tumore all’ovaio un tumore che presenta pochi sintomi in fase iniziale, sono poche le diagnosi che avvengono al primo stadio. Ecco perché era difficile raccogliere ampie casistiche che permettessero di fare una ricerca rigorosa. Secondo, all’epoca non avevamo la tecnologia necessaria per rispondere a questa domanda. Ma passione e curiosità ci hanno spinto a iniziare comunque questo viaggio.

Sebbene la tecnologia dell’epoca non fosse adeguata per rispondere a quella domanda, l’idea geniale del Prof. Mangioni e del Prof. D’Incalci, con cui ho collaborato a questa ricerca, fu quella di iniziare a collezionare in modo sistematico i campioni e i dati clinici delle pazienti con tumore all’ovaio al primo stadio, in modo che un domani qualcuno avrebbe avuto abbastanza materiale per poter rispondere. Iniziava così il primo embrione di quella che sarebbe stata la biobanca utilizzata per questo studio. Fiducioso nel progresso tecnologico, il Prof. Mangioni iniziò in modo meticoloso e certosino questo lavoro di raccolta di casi.

Che cos’è una biobanca?

Una biobanca è una raccolta organizzata di campioni biologici prelevati da pazienti e associati meticolosamente ai dati anagrafici e clinici dei pazienti stessi. Le biobanche sono straordinariamente importanti perché permettono di mettere in correlazione ciò che si osserva nei tessuti tumorali, attraverso le più moderne tecnologie di analisi cellulare e molecolare, con quello che sappiamo della storia di quel tumore e del paziente da cui è stato prelevato: come è progredito il tumore, se ha risposto o meno alle terapie, etc. Costruire e mantenere una biobanca è molto costoso ma ha uno straordinario valore, perché all’interno della biobanca si nascondono scoperte importanti che possono aprire la strada a nuove terapie.

Quali conseguenze ci sono state da questa scoperta?

Grazie a quella iniziale domanda, grazie alla biobanca e all’avvento delle nuove tecnologie, il nostro gruppo di ricerca è riuscito a proseguire nel cammino iniziato da Mangioni: il nostro studio ha dimostrato che la diversa storia clinica a cui vanno incontro i tumori ovarici al primo stadio è già racchiusa all’interno del DNA del tumore quando viene diagnostico e che noi oggi siamo in grado di leggere e interpretare questa storia prima che si manifesti. Leggendo le alterazioni principali del DNA sono state individuate tre categorie di alterazioni strutturali, che danno indicazioni sui rischi di recidiva. Il messaggio fondamentale è che all’esordio il tumore ovarico ha già in sé le caratteristiche molecolari che definiscono le sue traiettorie evolutive, ossia il suo comportamento clinico.

Questo cambia tutto, consente di vedere più avanti.

Questo potrebbe avere un importante impatto sulla clinica perché se sappiamo in anticipo che un tumore ha basso rischio di recidiva, allora possiamo pensare a protocolli clinici in cui evitiamo di esporre le pazienti ai rischi tossici della chemioterapia e possiamo intervenire solo chirurgicamente. Ovviamente serviranno nuovi studi multicentrici per confermare i risultati della nostra ricerca e trasformarla effettivamente in uno strumento predittivo a disposizione della pratica clinica.

Per il futuro io credo che dobbiamo muoverci sempre di più sulla strada della diagnosi precoce, usare tutte le informazioni e gli strumenti che abbiamo  per intercettare il tumore nelle sue prime fasi di sviluppo, quando è ancora vulnerabile e l’attuale armamentario terapeutico potrebbe essere molto più efficace. Colpire una malattia quando è in fase avanzata e molto radicata è sempre più difficile che colpirla in fase iniziale. Questa è oggi una terra inesplorata, dove c’è ancora molto lavoro da fare, soprattutto per i tumori ginecologici.

Se non fosse diventato ricercatore, quale professione avrebbe voluto intraprendere?

Sinceramente, non credo che avrei potuto fare un altro lavoro. Non ho rimpianti sulle mie scelte, alcune volute fortemente, come quella del dottorato di ricerca o della specialità in farmacologia, altre  fatte per caso. Credo che la provvidenza guidi i nostri passi soprattutto nei momenti decisivi della nostra vita. A 17 anni, quando frequentavo il liceo classico, tutti i miei compagni sognavano di diventare avvocato, economista, ingegnere. Io non avevo le idee molto chiare, anzi mi sentivo un po’ inadeguato a intraprendere l’università. Ma avevo sempre dentro di me una domanda che mi aveva lasciato il mio prete del liceo, Don Giorgio Basadonna e che non mi lasciava mai in pace: “Ma tu cosa vuoi fare nella vita?”. Poi la svolta: in vacanza tra le montagne di La Thuille, in un caldo pomeriggio di agosto, conobbi un gruppo di amici e una ragazza più grande di me che stava studiando biologia. Sfogliando i suoi libri mi resi conto che quella materia mi interessava e sentii un semplice risposta echeggiare dentro di me: “Fai questo”. Da lì è iniziato il mio lungo viaggio, fatto di alti e bassi, di successi e sconfitte, che mi hanno portato fino a qui.

Come è arrivato alla scelta di lavorare in Humanitas?

La proposta è arrivata dal prof. Maurizio D’Incalci, il mio secondo mentore dopo il prof. Mangioni. Mi ha sempre affascinato l’idea che la mia ricerca dovesse essere traslazionale e per questo non “lontana” dal letto del paziente. Humanitas offriva per me, per il mio gruppo, per i miei progetti di ricerca, l’ambiente ideale dove poter far fruttare al meglio il lavora fatto fino ad ora.

Perché a suo avviso è importante che tutti, non solo le Istituzioni, sostengano la ricerca?

Penso che la ricerca scientifica debba essere sostenuta da tutti perché rappresenta un bene, una ricchezza. Oggi abbiamo finalmente strumenti e conoscenze che veramente ci permettono di portare il microscopio vicino al letto del paziente. Possiamo studiare sia grandi numeri di casi sia il singolo caso, dalla massa tumorale alla singola cellula tumorale. Questo ci permette non solo di identificare   la cura migliore, ma anche di evitare che il paziente sia esposto a trattamenti che sono più tossici che efficaci. Ecco perché far progredire nel paese la ricerca scientifica a tutti i livelli rappresenta un bene per la comunità.

Io credo che siamo tutti coinvolti in questo percorso di crescita della conoscenza scientifica e medica, ognuno secondo le proprie attitudini e professionalità: alcuni con il sostegno morale ed economico, altri mettendo a frutto il proprio tempo e le proprie competenze nei laboratori di ricerca, come noi ricercatori.