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Ritratti: 5 domande alla dottoressa Rita De Sanctis

Oncologa del Cancer Center di Humanitas e ricercatrice di Humanitas University

Dottoressa, di cosa si occupa in Humanitas?

Mi occupo delle pazienti affette da tumore mammario e, in generale, dei fattori predittivi di risposta ai trattamenti: un ambito molto rilevante in oncologia perché uno dei nostri obiettivi è dare la giusta terapia a ognuna delle nostre pazienti. Le terapie oncologiche, purtroppo, possono avere alcuni effetti collaterali, per cui è fondamentale che la terapia scelta sia la più personalizzata possibile, affinché sia efficace e con tossicità accettabile, altrimenti il percorso di cura rischia di diventare faticoso e più difficile da affrontare.

Nell’ambito della ricerca dei fattori predittivi di risposta ai trattamenti mi sono principalmente focalizzata sulla terapia preoperatoria, che viene somministrata nei casi di tumore mammario che, per estensione locale o per caratteristiche biologiche, è preferibile trattare con chemioterapia prima dell’intervento chirurgico.

Quali sono gli effetti collaterali più comuni, in questo caso?

La chemioterapia può causare caduta dei capelli, nausea, problematiche gastrointestinali, mucosite (infiammazione della mucosa della bocca e della faringe – NDR). Di contro, però, la chemioterapia può determinare una riduzione dimensionale del tumore mammario fino ad arrivare alla regressione completa (per questo prima di iniziare una chemioterapia posizioniamo sempre una clip vicino al nodulo, un punto di riferimento per il chirurgo anche in caso di scomparsa del nodulo). In una percentuale minore di casi, invece, la malattia non risponde alle terapie.

Vi è quindi una estrema variabilità di risposta ai trattamenti oncologici e, per questo, è necessario cercare di identificare possibili fattori che ci sappiano predire l’entità del beneficio e, soprattutto la risposta patologica completa (quando la malattia sparisce prima dell’intervento chirurgico), che si è visto essere la condizione migliore, associata a una migliore prognosi.  

Questo è quindi l’obiettivo concreto della ricerca

Vogliamo essere ancora più precisi nel definire un percorso di cura per la paziente ed evitare una terapia tossica da cui la paziente potrebbe non trarre beneficio. 

Come avete pensato di procedere?

Tutte le pazienti che partecipano al nostro studio sono sottoposte a una PET di stadiazione, un esame che ci permette di visualizzare dove sono le cellule tumorali e che caratteristiche hanno, così da definire lo stadio della malattia. In collaborazione con la medicina nucleare di Humanitas stiamo analizzando in modo approfondito le immagini PET per ottenere più informazioni relative al tumore ed eventualmente rilevarne specifiche caratteristiche che potrebbero influenzare la risposta alla terapia.

Un altro elemento importante della nostra ricerca è l’analisi del microbiota, che stiamo svolgendo in collaborazione con il laboratorio di Immunologia delle Mucose e Microbiota, guidato dalla prof.ssa Maria Rescigno: recenti studi hanno infatti evidenziato che il microbiota può influenzare la risposta ad alcune terapie oncologiche e questo non ci sorprende, visto che il microbiota è ubiquitariamente presente nel nostro corpo, interferisce con le sue normali funzioni fisiologiche e quindi potenzialmente anche con l’evoluzione delle patologie e i trattamenti medici.

Oggetto di studio sono anche i marcatori tumorali: per il tumore mammario attualmente utilizziamo un marcatore presente nel sangue, soprattutto durante il follow-up dopo la diagnosi, per monitorare la malattia e valutare la risposta ai trattamenti, ma non sempre è attendibile. Stiamo lavorando per individuare nuovi marcatori di malattia, e quindi di risposta alle terapie, attraverso prelievi di sangue prima e durante i trattamenti. Questi esami ematici si aggiungono agli altri controlli previsti, come l’ecografia mammaria intermedia e quella al termine, e ad altri esami di stadiazione, con l’obiettivo di avere indicazioni iniziali ancora più precise e incoraggiare la paziente nel portare avanti un percorso così importante e talvolta complesso come quello della chemioterapia preoperatoria.

Parallelamente a ciò, stiamo raccogliendo informazioni relative ad alimentazione, attività fisica e abitudini generali di vita delle pazienti – aspetti che oggi sappiamo incidere sul metabolismo del corpo, interagire con il metabolismo cellulare e potenzialmente influenzare la risposta alle terapie.

La ricerca è iniziata nel 2019, con la pandemia sicuramente ha subito rallentamenti, adesso a che punto siete?

Siamo prossimi al raggiungimento del target di popolazione che ci eravamo prefissati (circa 100 donne). Siamo in ritardo causa Covid nella raccolta e nell’analisi dei campioni biologici, operazioni non semplici nel primo periodo della pandemia. Aspettiamo i primi risultati sull’analisi avanzata delle immagini già entro la fine di quest’anno, ed entro la fine del prossimo possiamo aspettarci gli esiti positivi dell’analisi del microbiota, più lunga e complessa.

Adesso parliamo di lei. Come mai ha scelto di essere oncologa?

Ho scelto oncologia perché affronta malattie che purtroppo fanno ancora paura. E anche per questo è una branca della medicina in cui sento, come ricercatrice, di poter fare la differenza, contribuendo a trovare nuove strategie terapeutiche sempre più efficaci, per i tumori sia precoci sia avanzati. Fare ricerca è il completamento del mio essere medico oncologo: così ho una visione completa, dalla visita della paziente, alla proposta del miglior percorso terapeutico disponibile, fino alla ricerca di soluzioni innovative, sempre più efficaci.

In Humanitas c’è la clinica, c’è l’università, c’è la ricerca traslazionale, c’è la ricerca scientifica: lei è in Humanitas anche per questo motivo?

Certo, già durante la scuola di specialità sentivo forte il bisogno di portare avanti parallelamente anche la mia attitudine alla ricerca: poterlo fare in un centro di eccellenza, dov’è sicuramente più facile iniziare percorsi di ricerca con i colleghi e portarli avanti insieme, è sicuramente uno dei motivi che mi hanno portato qui.

Se non avesse fatto il medico e la ricercatrice, che professione avrebbe scelto?

Potrà sorprendere, ma avrei perseguito studi in filosofia, o comunque in area umanistica, perché mi sarebbe piaciuto approfondire la condizione umana e il suo rapporto con il mondo.

Vedo assonanze, invece: si tratta di fare le domande giuste per cercare delle risposte.

L’approccio di ricerca e indagine c’è in entrambe, in effetti. Ho scelto però di aiutare concretamente le persone. Il bello della medicina è che consente di applicare praticamente gli studi teorici su una delle condizioni esistenziali più comuni, purtroppo – quella della malattia – con l’obiettivo di aiutare gli altri a stare meglio. Ho scelto Medicina alla fine del liceo: ho fatto il test di ingresso, anche se ero pronta anche a fare altro, e l’ho passato. Era il destino.

Cosa l’ha spinta ad occuparsi di donne, che emozione le porta? 

Sento una vicinanza maggiore, anche in termini di vissuto: la donna regge un carico maggiore di responsabilità, nella famiglia ma anche nell’attività lavorativa; dobbiamo spesso fare equilibrismi continui tra attività privata e attività lavorativa.

Ogni donna ha la sua vita e la sua storia, ma essere donna vicino ad altre donne può semplificare, favorire l’empatia reciproca, perché c’è una vicinanza di pensieri e di riflessioni e aiuta il rapporto medico-paziente anche in termini di adesione della paziente al percorso proposto e di conoscenza. Conoscersi meglio, fidarsi, offre chiavi strategiche per riuscire a incoraggiare le pazienti più preoccupate in fase iniziale di cura della malattia o semplicemente quelle che hanno bisogno di sostegno durante il percorso.

A suo avviso, perché tutti dovrebbero contribuire a sostenere la ricerca, non solo le Istituzioni pubbliche? 

Perché senza ricerca rischiamo di fermarci. Tutto quello che siamo in grado di fare oggi, e ci sono stati tanti passi avanti nella gestione delle malattie, incluse le patologie tumorali mammarie, è stato possibile grazie alla ricerca.

Penso ai nuovi farmaci che hanno cambiato la storia naturale della malattia, con aspettative sulla sopravvivenza che non ci saremmo immaginati fino ad alcuni anni fa. La ricerca è possibile perché c’è qualcuno che continua a credere nella ricerca, perché lavora nella ricerca, ma ha bisogno di fondi per andare avanti. 

I risultati raggiunti ci spingono a pensare che non ci dobbiamo fermare ma puntare a ottenerne altri, ci auguriamo migliori: anche nel tumore della mammella, avere delle possibilità in più è vitale per tutti. Senza ricerca oggi non ci sarebbe nulla di tutto ciò che invece abbiamo. Non dimentichiamolo mai.