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Articoli Diamo voce alla ricerca

Ritratti: 5 domande al professor Gherardo Mazziotti

Responsabile della Sezione di Ricerca, Diagnosi e Cura delle Malattie Osteo-Metaboliche dell’Unità di Endocrinologia e Diabetologia dell’Istituto Clinico Humanitas

Di cosa si occupa professore e qual è il suo ambito di ricerca?

Mi occupo di patologie osteo-metaboliche, in particolare dell’osteoporosi primitiva e secondaria. Il Centro Humanitas che coordino, dedicato a questa malattia, integra le tre anime di Humanitas: qui facciamo diagnosi e cura, ricerca e formazione.

Con l’attività clinica quotidiana ci prendiamo cura dei pazienti e conosciamo i loro bisogni: questo ci aiuta a disegnare nuovi progetti di ricerca, sempre più mirati e ambiziosi. Allo stesso tempo, in un circolo virtuoso e continuo, i risultati raggiunti con la ricerca consigliano la nostra attività clinica: ci consentono di capire meglio i meccanismi alla base di queste malattie e il modo più efficace per gestirle. Accanto a queste attività cliniche e di ricerca, insegno endocrinologia in Humanitas University.

Come nasce questo approccio circolare alla malattia?

Nasce dalla mia esperienza personale: dopo la specializzazione in endocrinologia alla Seconda Università di Napoli ho frequentato il dottorato di ricerca in patologia generale, attività prettamente di laboratorio, che mi ha portato anche a trascorrere un anno all’estero, rappresentando così un’esperienza di vita oltre che professionale. Ho capito che l’approccio sperimentale può essere, in alcune fasi, particolarmente utile all’attività clinica.

Terminato il dottorato ho lavorato come medico in Pronto Soccorso per 5 anni e, a seguire, come specialista Endocrinologo a Mantova per circa 11 anni, dove ho diretto l’Unità Operativa di Endocrinologia dell’ASST Carlo Poma, ma non ho mai abbandonato la ricerca clinica. Mi è sempre piaciuto trasmettere le mie conoscenze agli altri, da qui l’insegnamento, oggi presso l’Università Humanitas. Trovo questo mix di attività quotidiane tutte funzionali al paziente e il gruppo in cui lavoro è molto stimolante: attitudini e competenze diverse si intrecciano quotidianamente, per offrire il massimo hai nostri pazienti e concepire progetti di ricerca di ampio spettro.

L’osteoporosi è una malattia tipicamente femminile, perché?

Il motivo è prima di tutto biologico. I soggetti maschili sostanzialmente nascono e crescono con una struttura scheletrica più forte rispetto a quelli femminili: quindi il depauperamento del patrimonio scheletrico è meno impattante nell’uomo perché parte da una struttura scheletrica biologicamente più performante.

Il secondo motivo è legato alle fasi di vita della donna. Non c’è un equivalente maschile della condizione di menopausa: l’assenza di estrogeni predispone a una perdita di massa maggiore nella donna.

Il terzo motivo è culturale, legato alla consapevolezza del problema: è molto più elevato il numero di donne che accedono alle cure perché sono più consapevoli rispetto ai rischi di questa malattia e si curano prima. Spesso noi trattiamo l’osteoporosi maschile solo dopo la complicanza, cioè a frattura avvenuta, invece curiamo la metà delle donne prima della complicanza. In sintesi, il bacino di utenza femminile è maggiore rispetto a quello maschile per motivi biologici, clinici e, se vogliamo, socio-epidemiologici, perché connessi alla consapevolezza della paziente.

Quali sono i suoi progetti di ricerca attivi oggi?

L’80% delle nostre pazienti, come dicevamo, è di sesso femminile: i nostri progetti sono focalizzati a comprendere meglio la gestione dell’osteoporosi nella pratica clinica, a studiare i meccanismi e l’efficacia delle terapie e, infine, a migliorare l’organizzazione dell’attività clinica, quest’ultimo progetto in collaborazione con l’Università Bocconi di Milano e il Politecnico di Milano.

È attivo anche un progetto di telemedicina, è così?

Esatto, sull’utilizzo della telemedicina nella gestione del follow-up a domicilio dei pazienti affetti da osteoporosi. Ritengo che sia una soluzione molto interessante, che potrebbe essere applicata in altri ambiti e per altre patologie. L’osteoporosi è una malattia cronica a elevato impatto epidemiologico: con la telemedicina evitiamo al paziente di recarsi in ospedale se non è strettamente necessario e ottimizziamo il percorso ospedaliero nella presa in cura del paziente acuto.

Questo potrebbe inoltre consentire l’avvicinamento del medico del territorio all’ospedale, grazie a una comunicazione continua su piattaforme dedicate, lavorando insieme in maggiore e più rapida sinergia. Stiamo esplorando il potenziale della telemedicina anche su un altro progetto che intende favorire l’aderenza alle terapie delle patologie croniche come l’osteoporosi.

La realizzazione di questi progetti beneficia di contributi spontanei e incondizionati da parte di aziende private, tra cui Sandoz ed Amgen che hanno sponsorizzato il progetto Telemacoh, e di fondazione Cariplo, che nel 2021 ha finanziato il progetto TELIOT condotto con Bocconi e il Politecnico, a testimonianza di quanto il tema della telemedicina sia ormai guardato con attenzione da diversi stakeholder.

Quali sono i problemi di applicazione della telemedicina? Come pazienti siamo più pronti dopo questi due anni di vita “a distanza”?

Diciamo che siamo più confidenti con la strumentazione: bisogna diffondere la cultura dell’informatizzazione. Faccio un esempio concreto. A un paziente che deve solo mostrare i referti di alcuni esami per rinnovare un piano terapeutico si potrebbe proporre di farlo a distanza, tramite teleconsulto.

Dalla mia osservazione riporto questo dato: i pazienti hanno solo bisogno di vedere come funziona la telemedicina, perché poi è davvero facile. Tutti siamo diventati più avvezzi all’uso della tecnologia, e questo anche dopo una certa età, ed è anche molto più comodo!

Lei si occupa di ricerca in diversi ambiti: qual è il progetto più innovativo o che lei ritiene possa cambiare maggiormente le condizioni dei pazienti?

Dal punto di vista dell’innovazione, il progetto che ritengo potrà darci maggiore soddisfazione nel prossimo futuro, anche per la pratica clinica, è quello che introduce approcci di intelligenza artificiale allo studio della malattia.

Nella donna affetta da osteoporosi primitiva è sufficiente la MOC (acronimo di Mineralometria Ossea Computerizzata, comunemente conosciuta come densitometria ossea – NDR) per indicarci il rischio di fatture; nelle forme secondarie di osteoporosi, ad esempio causate dall’utilizzo di farmaci come alcuni di quelli usati nelle cure oncologiche, la MOC è affidabile in meno del 50% dei casi.

Quindi abbiamo una percentuale elevata di donne che, pur non avendo ricevuto diagnosi di osteoporosi dopo la MOC, hanno un rischio di incorrere in fratture molto elevato. Con l’intelligenza artificiale ci auspichiamo di creare nuovi tool diagnostici in grado di riconoscere il rischio – e quindi trattare – i pazienti che potrebbero incorrere in fratture più facilmente, indipendentemente dal risultato della MOC. Sarebbe un grande vantaggio per tutti, prima di tutto per i pazienti, perché riusciremmo a distinguere meglio chi deve ricevere i trattamenti farmacologici e chi no.

Tornando all’osteoporosi, secondo lei sarebbe necessario sensibilizzare maggiormente la popolazione maschile sul rischio?

Potrebbe essere utile, anche se non è facilissimo. Nella donna abbiamo un momento storico della vita, la menopausa, che apre uno scenario possibile di osteoporosi. Nell’uomo non c‘è un momento particolare della vita a partire dal quale aumenta con certezza il rischio di insorgenza di osteoporosi, quindi non saprei a che età attenzionare la popolazione maschile con una campagna di prevenzione.

Quello che facciamo oggi è promuovere un concetto di salvaguardia della salute a più ampio spettro, comunicando i corretti stili di vita sin dall’età adolescenziale: spesso si dice che l’osteoporosi è una malattia pediatrica a insorgenza geriatrica.  Quello che noi misuriamo in una donna di 50 anni o in un uomo di 60 è il frutto della sua pr edisposizione genetica ma anche di come ha vissuto fino ad allora.

Esiste una biologia dello scheletro: nelle prime tre decadi di vita aumentiamo la nostra massa ossea, dopo inizia un declino fisiologico, anche se lento. Se in quelle tre decadi facciamo scelte sbagliate e il valore di massa ossea non viene raggiunto, successivamente godiamo di un patrimonio minore, che si esaurisce più rapidamente: quindi raccomandiamo a tutte le fasce di età esposizione al sole (sempre con le dovute protezioni, ovviamente), attività fisica adeguata, dieta ricca di calcio; e sconsigliamo l’assunzione di bevande alcoliche o ricche di caffeina, e scelte alimentari iperproteiche o ricche in sale, che fanno perdere molto calcio, per essere più forti e affrontare meglio le fragilità future.

Ma seguire stili di vita salutari fa bene in generale, non solo per prevenire l’osteoporosi. L’educazione alla salute dovrebbe essere ancora più pervasiva, con l’aiuto dei medici di famiglia, dei ricercatori, di noi docenti universitari, per trasmetterne contenuti e vantaggi a partire dalla scuola.

Una domanda invece più personale, professore. Se non avesse fatto il medico quale professione avrebbe scelto? Aveva qualche altro sogno?

Forse avrei intrapreso una carriera legata alle professioni della mia famiglia, in ambito legale quindi, e optato per l’avvocatura, la magistratura, il notariato, anche se non mi sentivo particolarmente portato.

Comunque sono sempre stato innamorato della medicina fin da piccolo: ricordo le visite del medico di famiglia, vivevamo in un piccolo paese e per tutti noi era un punto di riferimento insostituibile. Mi ha subito affascinato. Credo che la mia decisione di fare il medico nasca dall’ammirazione che ho sempre provato per lui, cui si è unita anche una mia naturale predisposizione organizzativa e di coordinamento delle persone.

Un’ultima domanda: cosa direbbe ai donatori per far capire che la ricerca è una risorsa preziosa e quindi che è necessario contribuire tutti a sostenerla?

Ricorderei quello che è stato fatto in campo oncologico anche solo in questi ultimissimi decenni: vent’anni, trent’anni fa molti pazienti, purtroppo, non sopravvivevano alla malattia perché non c’erano cure efficaci. Gli stessi malati oggi guariscono completamente grazie alle terapie a disposizione individuate e messe a punto attraverso la ricerca.

Tutti noi abbiamo avuto storie familiari tristi legate all’insorgenza dei tumori: la ricerca ha migliorato notevolmente l’aspettativa di vita e la qualità di vita delle persone. Ammalarsi fa un po’ meno paura di un tempo. La stessa esperienza virtuosa sperimentata in campo oncologico può essere trasferita ad altri ambiti, come quello delle malattie osteo-metaboliche. Oggi riusciamo a curare molto bene la fragilità scheletrica con farmaci efficaci e innovativi.

Questi anni di Covid-19 ci hanno insegnato invece che la professione del medico è passione. Tutti noi abbiamo abbandonato le nostre scrivanie e siamo scesi in campo, nessuno si è tirato indietro: quando bisogna buttare il cuore oltre ostacolo non è necessario che qualcuno lo imponga, ci siamo dati tutti da fare.

Essere medico è proprio questo: amare la vita e non smettere mai di difenderla.