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Ritratti: 5 domande alla dottoressa Alexia Bertuzzi

Responsabile del Progetto AYA e della divisione dei sarcomi e dei tumori neuroendocrini del Cancer Center di Humanitas e docente Humanitas University

Dottoressa che cos’è il progetto AYA di cui si occupa?

AYA è l’acronimo inglese di Adolescents and Young Adults, e sta a indicare il target di pazienti oncologici di età compresa tra i 16 e i 39 anni. In Humanitas nel 2018 è stato attivato un progetto AYA dedicato alla ricerca sulle forme di tumore che maggiormente colpiscono i giovani e giovanissimi, alla cura e al supporto psicosociale di questi pazienti che, anziché vivere con spensieratezza la loro età, si trovano a dover affrontare e combattere una malattia così seria.

Grazie ad un’iniziativa che si terrà agli inizi di settembre a Milano durante Expo per lo Sport, e con l’aiuto importantissimo di Autogrill, stiamo cercando di potenziare il supporto psicosociale che il progetto AYA offre ai suoi giovani pazienti.

Se non avesse scelto di essere medico, che professione avrebbe scelto di fare?

Per me è stata una vocazione praticamente innata. Nessuno è medico nella mia famiglia, ma io a 10 anni ho deciso che sarei diventata medico. Mia madre ancora adesso si chiede come mai abbia scelto proprio questa professione.

La Facoltà di Medicina è stata subito un grande amore, anche se tutti mi dicevano di non farla perché sarebbe stato difficile trovare posto per sovrannumero di medici: invece io, che mi sono laureata nel ’94, ho sempre lavorato fin dal primo giorno. E comunque quando c’è una grande passione va sempre assecondata.

La decisione di occuparmi di Oncologia invece è connessa a una serie di eventi. Ho studiato al San Raffaele e lì sono entrata in un gruppo che si occupava di studiare oncologia, soprattutto l’ambito dell’immunoterapia, in particolare sui melanomi e i tumori renali.

Così è nato il mio interesse per queste tematiche. Dal terzo anno in poi ho frequentato il laboratorio di Ricerca di Immunoterapia, un’area che stava diventando sempre più conosciuta e studiata, proprio a quei tempi. Mi è sempre piaciuto tantissimo studiare, e sono contenta del percorso che ho intrapreso.

Come mai ha scelto di lavorare per giovani e giovanissimi malati di tumore?

All’inizio del mio lavoro in Humanitas ho seguito il trapianto di midollo in Ematologia e avevamo tantissimi pazienti praticamente miei coetanei.

Eravamo tutti giovani, medici, infermieri e pazienti. Seguivamo i nostri pazienti trapiantati, che facevano chemioterapia per un anno, sempre, magari con eccessivo coinvolgimento: trascorrevamo insieme molto tempo, cercavamo tutti di rendere loro meno pesante la vita in ospedale, di alleggerire il dramma che stavano vivendo.

In Humanitas c’è sempre stata questa sensibilità: i giovani pazienti erano numerosi perché il professor Armando Santoro (Direttore del Cancer Center – NDR) è sempre stato un punto di riferimento molto importante nel mondo dei sarcomi e dei linfomi, due delle patologie tipiche dei giovani.

Poi si è cominciato a studiare e parlare del mondo AYA: il primo congresso mondiale cui ho partecipato è stato a Edimburgo nel 2016. Nel 2011 è nata la prima rivista dedicata ai giovani adulti. In Italia siamo arrivati un po’ dopo, perché negli anni 80 in Inghilterra, ma anche in USA, si parlava già di tumore dei teen agers e di supporto ai giovani malati oncologici sotto i 25 anni.

A Edimburgo mi ha colpito la folta presenza di ragazze e ragazzi malati che hanno raccontato i loro bisogni e portato informazioni importanti.

Giovani, Oncologia: le cose accadono perché si sommano coincidenze con interessi e, nel caso di questo target così speciale, per empatia, per vicinanza verso questi ragazzi che ho sempre visto soffrire. Lavorando per loro mi sembra di poterli aiutare.

Ma le giovani, i giovani che segue sono pronti a essere partecipi, mi sembra di aver compreso.

E’ così, non tutti ovviamente, ma alcuni vogliono aiutarci ad aiutarli.

Faccio un esempio: abbiamo partecipato a un incontro con gli ingegneri del Politecnico che, con la stampa tridimensionale, possono creare ormai davvero di tutto. Hanno ascoltato direttamente i nostri pazienti per produrre protesi destinate a loro, si sono fatti raccontare come gesti semplici e quotidiani possono diventare difficilissimi se un arto viene a mancare a causa della malattia. Quel giorno in cui ci siamo confrontati, ho visto tutti i nostri mondi insieme: il mio di medico, quello degli ingegneri e quello dei ragazzi malati, e gli ingegneri erano contenti di essere di aiuto concretamente. Tutti lavoravamo nella stessa direzione, è stato un momento di incontro profondo, istruttivo, emozionante.

Dottoressa Bertuzzi, perché a suo avviso è importante che la Ricerca sia sostenuta da tutti, non solo dalle Istituzioni pubbliche?

Perché è l’unico modo per arrivare veramente a cambiare in meglio in Medicina. Penso ai tantissimi progresssi degli ultimi anni nell’ambito dell’Oncologia, che hanno salvato migliaia di persone.

E’ giusto coinvolgere ancora di più le persone che non si occupano di Scienza informandole, come accadrà durante l’evento Expo per lo Sport a settembre. Noi medici saremo presenti per rispondere alle domande delle persone su tematiche che fanno paura, come i tumori.

Credo che vedere medici rassicuranti e accoglienti possa avvicinare il grande pubblico alla prevenzione: con i giovanissimi è fondamentale rompere le barriere e aiutarli a prendere consapevolezza di eventuali problematiche che possono riguardare la loro salute.

Ed essere più vicini permette a ciascuno di dare il proprio contributo al progresso delle cure: i ricercatori con la loro conoscenza, le persone con le donazioni.