Ritratti: 5 domande alla ricercatrice Sara Carloni
Sara Carloni studia il microbiota intestinale e il suo impatto sul funzionamento di molteplici organi, soprattutto il cervello, che influenza in modo indiretto anche attraverso il rilascio di molecole nel circolo sanguigno. Svolge la sua attività di ricerca nel laboratorio diretto dalla prof.ssa Maria Rescigno, prorettrice alla ricerca di Humanitas University ed esperta mondiale sul ruolo del microbiota nella nostra salute.
Cosa vuol dire per te fare ricerca scientifica? Quali sono le caratteristiche necessarie per essere una buona ricercatrice?
Chiunque faccia ricerca scientifica di frontiera – come quella che facciamo nel laboratorio diretto da Maria Rescigno – sa che non esistono percorsi prestabiliti o metodi che vanno bene in ogni situazione. Per definizione, quello che studiamo non è mai stato osservato prima, e di conseguenza i risultati che ci aspettiamo da un esperimento sono spesso molto diversi da quelli che otteniamo. Ma anche molto più interessanti. Ecco perché è fondamentale avere una mente aperta e curiosa, pronta a cambiare prospettiva e a rivedere le ipotesi di partenza se i dati lo suggeriscono, a volte addirittura a seguire nuove piste, completamente inattese. Richiede intuito, per scegliere come procedere di fronte a ogni nuovo bivio che si apre lungo la strada, creatività, per immaginare questi scenari e per riformulare le nuove ipotesi (con razionalità, certo, ma a volte anche in modo contro intuitivo e sorprendente, come spesso la natura dimostra di essere) e richiede lavoro di squadra. La nostra capacità di spiegare il mondo che ci circonda dipende da un continuo e proficuo scambio di idee: la scienza non è mai stata un’impresa solitaria, e oggi lo è ancora meno. In questo scambio, avere prospettive e punti di vista diversi è fondamentale, non solo diversi per genere, ma per storia personale, provenienza, cultura e identità. Abbiamo bisogno di una scienza sempre più aperta e accogliente delle diversità, che sono ricchezza in ogni contesto, non solo nel mondo naturale. Tra queste diversità ci sono anche quelle anagrafiche, ed è il motivo per cui la ricerca scientifica e l’insegnamento universitario sono così legati tra loro. Non è solo vero che è fondamentale, per gli studenti, avere docenti che lavorino alla frontiera del sapere, ma è anche vero il contrario: per chi fa ricerca come noi, è fondamentale avere il contributo dato dal confronto continuo con gli studenti.
Oggi è la giornata per le donne nella scienza. Cosa si dovrebbe fare per facilitare l’accesso delle donne nel mondo STEM?
Giornate come queste sono importanti perché ci permettono di fare sensibilizzazione e ricordare che c’è un problema di mancanza di diversità nel mondo della ricerca, e che questa mancanza parte purtroppo dalla sua forma più semplice eppure più difficile: avere equità di accesso al mondo della ricerca indipendentemente dal proprio sesso e genere. Per fortuna le cose stanno cambiando velocemente e ci sono tante iniziative efficaci. Ma bisogna fare di più. Ci siamo concentrati molto sull’aumentare l’accesso delle giovani donne nello studio delle materie STEM, ma il problema è anche al vertice, nella maggiore difficoltà di carriera scientifica per le donne. Tra le tante cose importanti da fare credo ci sia quella di rendere sempre più facile e accettabile, per le donne che lo vogliono, affrontare il percorso di maternità senza pensare che questo metta in discussione il loro valore in quanto scienziate né la loro carriera. I dati ci dicono che la produzione scientifica di donne con o senza figli non varia, ma c’è una cultura da cambiare e questa è sicuramente la sfida più grande.
Due anni fa hai coronato il sogno di molti ricercatori e ricercatrici, firmare come prima autrice uno studio sulla rivista Science. Cosa avete scoperto?
Innanzitutto lasciami dire che lo studio è frutto di una collaborazione tutta al femminile. Da una parte il lavoro condotto qui nel laboratorio di Maria Rescigno, grazie alla nostra expertise nello studio del microbiota intestinale e del modo in cui influenza moltissimi processi fisiologici e di malattia, unito all’expertise sulle barriere vascolari e l’immunologia mucosale. Questo si è unito alle competenze delle neuroscienziate Michela Matteoli e Simona Lodato qui in Humanitas. Grazie a questa collaborazione multidisciplinare abbiamo scoperto l’esistenza di una nuova barriera in grado di chiudersi e proteggere il cervello in alcune condizioni infiammatorie. Nello studio l’infiammazione parte dall’intestino e si diffonde a livello sistemico, raggiungendo il cervello che per proteggersi chiude la più importante barriera vascolare che lo mette in contatto con il sistema circolatorio, causando alterazioni comportamentali. Sospettiamo che questa barriera svolga questo ruolo protettivo in molteplici situazioni in cui gli altri meccanismi di protezione del cervello sono venuti meno.
Come stanno proseguendo le ricerche?
Vogliamo capire soprattutto due cose: cosa causa la chiusura di questa barriera, se ci sono cioè delle caratteristiche comuni – e quindi delle molecole specifiche – che devono essere coinvolte nel processo infiammatorio per attivarla; e cosa produce la chiusura della barriera, quali sono le sue conseguenze. Dalla prima linea di ricerca potremmo trarre degli insegnamenti generali e quindi anche, in futuro, delle soluzioni farmacologiche per intervenire e risolvere situazioni in cui la barriera non si comporta in modo fisiologico. La seconda linea di ricerca è ancora più emozionante, perché apre nuovi orizzonti di ricerca e offre potenzialmente nuove spiegazioni a fenomeni di malattia – anche di tipo neurologico o neuropsichiatrico – ancora poco compresi. Già nello studio pubblicato su Science abbiamo infatti dimostrato che la chiusura della barriera, riducendo lo scambio di molecole e quindi di informazioni tra cervello e resto dell’organismo, produce dei cambiamenti a livello comportamentale. Quello che ci chiediamo è se questa barriera abbia o meno un ruolo, e quale, in diverse malattie neuropsicologiche. Ci chiediamo anche che influenza possa avere la chiusura della barriera sull’efficacia delle chemioterapie nei tumori al cervello, dove l’arrivo dei farmaci al sistema nervoso centrale è una delle sfide cliniche più complesse. Ma questi sono solo esempi delle tante strade di ricerca che si sono aperte con la scoperta pubblicata su Science.
Perché è importante donare per la ricerca?
Proprio per quello che ci siamo detti fin qui: la ricerca procede per tentativi ed errori; richiede libertà di pensiero, confronto, pazienza e curiosità; e per tutto questo richiede un sostegno economico incondizionato, una partnership tra società e scienziati, che nasce dalla consapevolezza – più volte dimostrata – che ogni euro investito in ricerca produce maggiore ricchezza e benessere in ritorno. Il modo in cui la medicina è migliorata negli ultimi cinquanta anni ne è una prova assoluta. Sostenere la ricerca è il modo migliore per creare le condizioni necessarie per fare scoperte scientifiche di frontiera, che sono quelle più fertili e con maggiori probabilità di produrre innovazione e di migliorare la nostra vita.